La Cassazione ribadisce il suo fermo no al carcere per i giornalisti condannati – seppure con pena sospesa – per il reato di diffamazione a mezzo stampa

Entro la prossima primavera deciderà la Corte Costituzionale su richiesta dei tribunali di Salerno e di Bari – sede di Modugno

In attesa del verdetto della Corte Costituzionale, atteso tra alcuni mesi, la 5^ sezione penale della Cassazione ha ribadito il suo fermo no al carcere – seppure con pena sospesa – per i giornalisti condannati per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Motivo: la detenzione per questo reato, prevista sia dall’art. 595 del codice penale art. 595 che nella legge sulla Stampa, la n. 47 del 1948, é incompatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La detenzione può essere giustificata solo in casi del tutto eccezionali, cioé quando siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, discorsi di odio o di istigazione alla violenza. Tranne in questi casi di fronte a condanne per diffamazione gli ermellini di piazza Cavour hanno esortato i giudici italiani a non infliggere più il carcere, ma eventualmente solo multe.

La Suprema Corte, ribadendo quanto già affermato in un’altra decisione di cinque anni fa, hanno quindi sancito un principio  di civiltà giuridica che non solo può essere ormai considerato “diritto vivente”, ma per di più potrà supportare la Consulta in vista della sua attesa pronuncia su questa importante e tanto dibattuta questione in tema di libertà di stampa e di diritto di cronaca, spronandola a sanare un vulnus che nel nostro Paese dura ingiustificatamente da troppo tempo e su cui, purtroppo, il Parlamento da decenni non é riuscito incredibilmente a legiferare (il 18 giugno scorso a Napoli lo stesso premier Guseppe Conte si era impegnato ad affrontare l’argomento), nonostante pubblici appelli e progetti di legge presentati da FNSI, CNOG, Ossigeno per l’Informazione, Articolo 21 e persino dalla FIEG. Insomma il carcere appare incompatibile con il diritto di cronaca e rappresenta un limite sostanziale alla libertà di informazione e quindi al sistema democratico del nostro Paese. 

La sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019, emessa dalla quinta sezione penale della Cassazione (Presidente Paolo Antonio Bruno, relatore Michele Romano), cliccare su

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20190919/snpen@s50@a2019@n38721@tS.clean.pdf, assume quindi particolare rilievo. I supremi giudici hanno ricordato che la CEDU – Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, “con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti contro Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la sentenza Belpietro contro Italia del 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa”. 

Applicando questi principi la Cassazione ha definitivamente annullato la pena, condizionalmente sospesa, di tre mesi di reclusione, inflitta dalla Corte di Appello di Salerno a Fabio Buonofiglio, direttore del periodico calabrese «Altre Pagine» di Corigliano-Rossano (Cosenza), per un articolo pubblicato il 13 agosto 2011 e intitolato «L’allegra compagnia d’una giustizia che va a puttane», che era stato ritenuto gravemente lesivo della reputazione del magistrato Maria Vallefuoco, sostituto procuratore della Repubblica di Rossano. Nonostante che la sua condanna al carcere – anche se sospesa – sia stata cancellata e che il reato di diffamazione sia caduto in prescrizione, il giornalista rischia comunque di essere condannato in un prossimo giudizio in sede civile a risarcire i danni in favore del pm calabrese che si era costituito parte lesa nel processo penale.

La pronuncia della Suprema Corte ribadisce quanto già affermato nella sua precedente decisione della quinta sezione penale n. 12203 del 13 marzo 2014 (Presidente Gennaro Marasca, relatore Grazia Lapalorcia), cliccare su http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20140314/snpen@s50@a2014@n12203@tS.clean.pdf . In quell’occasione fu osservato che “l’irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, pur a seguito del riconoscimento di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, non sembra rispondere alla ratio della previsione normativa che, nel prevedere l’alternatività delle due sanzioni, palesemente riserva quella più afflittiva alle ipotesi di diffamazione connotate da più spiccata gravità”. Per contrastare l’applicabilità della pena detentiva non fu neppure trascurato l’orientamento della Corte EDU che, ai fini del rispetto dell’art. 10 della Convenzione relativo alla libertà di espressione, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l’irrogazione, in caso di diffamazione a mezzo stampa, della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa, sul rilievo che, altrimenti, non sarebbe assicurato il ruolo di ‘cane da guardia’ dei giornalisti, il cui compito è di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle (sentenza del 24 settembre 2013 Belpietro contro Italia)”. 

In un altro passaggio della decisione n. 12203 del 2014 fu sottolineato che “la libertà di espressione costituisce un valore garantito anche nell’ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d’informazione cui si correla quello all’informazione garantito dall’art. 21 della Costituzione, diritti i quali impongono, anche laddove siano valicati i limiti di quello di cronaca e/o di critica, di tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza, tra l’altro attualmente oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare tale funzione”. In quella sentenza fu anche ricordato che all’epoca il legislatore ordinario italiano era “orientato al ridimensionamento del profilo punitivo del reato di diffamazione a mezzo stampa” (ma poi tutto é rimasto nei cassetti di Montecitorio e di palazzo Madama, n.d.r.).

Sulla legittimità del carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione si esprimerà entro la prossima primavera la Corte Costituzionale. Come é noto alla Consulta è arrivata l’ordinanza emessa il 9 aprile scorso dal giudice monocratico della seconda sezione penale del Tribunale di Salerno dott. Giovanni Rossi, nel corso del processo per diffamazione a carico dell’ex collaboratore del “Roma” Pasquale Napolitano e del direttore del giornale Antonio Sasso, assistiti dall’avvocato del Sindacato unitario giornalisti della Campania Giancarlo Visone. Per il giudice Rossi  il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa va contro quanto previsto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e violerebbe anche libertà e principi fondanti sanciti dagli articoli 3, 21, 25, 27 e 117 della nostra Costituzione. La relativa ordinanza n. 140 é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 18 settembre scorso, cliccare su https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2019-09-18&atto.codiceRedazionale=19C00245 . Il termine per le parti (compresi eventualmente il CNOG e la FNSI) per costituirsi scadrà l’8 ottobre prossimo. 

Nel frattempo é pervenuta a palazzo della Consulta un’altra ordinanza di cui non si era mai data alcuna notizia. E’ stata emessa dal tribunale di Bari – sede di Modugno – il 16 aprile scorso ed é stata registrata in cancelleria con il n. 149, cliccare su https://www.cortecostituzionale.it/schedaOrdinanze.do?anno=2019&numero=149&numero_parte=1 . Viene eccepita l’incostituzionalità sempre dell’art. 13 della legge sulla stampa dell’8 febbraio 1948 n. 47 in combinato disposto con l’art. 595, 3° comma, del codice penale per presunta violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione in relazione all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali, in quanto sarebbe illegittima la pena cumulativa della reclusione, invece che in via alternativa, per il reato di diffamazione a mezzo stampa. 

Entro i primi di ottobre il presidente dell’Alta Corte Giorgio Lattanzi dovrebbe quindi fissare la data dell’udienza pubblica per entrambe le ordinanze dei tribunali di Salerno e Bari. La sentenza si conoscerà entro la prossima primavera.

Pierluigi Franz

Presidente del Sindacato Cronisti Romani presso l’Associazione Stampa Romana

 

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Corte di Cassazione 5^ sezione penale sentenza n. 38721 del 19/09/2019 (Presidente Paolo Antonio Bruno, relatore Michele Romano), cliccare su

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20190919/snpen@s50@a2019@n38721@tS.clean.pdf  

 

 

                                                 SENTENZA

 

sul ricorso proposto da

Buonofiglio Fabio, nato a Aschaffenburg (Germania) il 21/01/1974 avverso la sentenza del 15/03/2018 della Corte di Appello di Salerno

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Michele Romano;

udito il Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;

 

                                                       RITENUTO IN FATTO

 

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Salerno ha confermato la sentenza del 21 aprile 2016 del Tribunale di Salerno, che, all’esito del giudizio ordinario, ha condannato Fabio Buonofiglio alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi tre di reclusione, oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile Maria Vallefuoco, per il reato di cui all’art. 595 cod. pen., in relazione all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti.

 

All’imputato si contesta di avere offeso la reputazione di Maria Vallefuoco pubblicando sul periodico «Altre Pagine», da lui diretto, in data 13 agosto 2011, un suo articolo titolato «L’allegra compagnia d’una giustizia che va a puttane» in cui si affermava, per quanto di interesse in questa sede: «… già l’eventuale reato. E chi lo perseguirebbe? La magistratura? Quella che in carne ed ossa, in carne soprattutto, parteciperebbe assiduamente a talune feste mondane organizzate da una ricca imprenditoria troppo spesso border-line e forse pure a tal altri festini? Mettete per esempio insieme un ipotetico magistrato ed un altrettanto ipotetico maresciallo che perdono il loro sonno trascorrendo pomeriggi interi e notti ad indagare “a fondo”. Su cosa e sul conto di chi? Sul loro stesso conto, affusolati tra le lenzuola di un comodo letto. Mettete che la tresca sessual-amorosa vada avanti per mesi. Un rapporto extraconiugale per entrambi ed ovviamente clandestino che assume dominio pubblico negli ambienti deputati all’amministrazione della giustizia. E un marito cornuto che alimenta le chiacchiere. Che riempiono un palazzo di giustizia stracolmo di fascicoli quanto vuoto d’imbarazzo. Con avvocati che fanno quotidianamente la fila davanti alla porta di quel sostituto procuratore al fine di aggraziarselo perché non frapponga ostacoli alla richiesta di scarcerazione d’un nnalacarne finito in patria galera… mentre vi à sempre quell’altro magistrato inquirente e quel maresciallo che insieme, come due conigli, stanno fottendo la Giustizia…».

 

2. Ricorre per cassazione Fabio Buonofiglio, a mezzo del suo difensore, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata ed affidandosi a tre motivi.

 

2.1 Con il primo motivo lamenta violazione dell’art. 595 cod. pen., in quanto i giudici avrebbero errato nel ritenere facilmente individuabile nell’articolo il riferimento alla persona di Maria Vallefuoco, per essere la stessa l’unico sostituto procuratore di sesso femminile e coniugata in servizio alla Procura della Repubblica di Rossano, sebbene l’articolo non facesse riferimento ad un ben preciso ufficio giudiziario e nonostante che il periodico Altre Pagine fosse diffuso in tutta la Piana di Sibari, comprendente, oltre a Rossano, anche Castrovillari, sede di altra Procura della Repubblica. Inoltre, la Corte di appello si sarebbe basata esclusivamente sulle deposizioni dei testi Maria Vallefuoco e Fasano, persona di fiducia della stessa Vallefuoco, la cui attendibilità non era stata adeguatamente valutata.

 

2.2. Con il secondo motivo si lamenta della mancata riapertura della istruttoria dibattimentale ed in particolare della mancata escussione di altri testi, necessaria per accertare se tutti i lettori del periodico, e non solo le persone vicine alla Vallefuoco, avessero inteso che l’articolo si riferiva a quest’ultima. Inoltre, secondo il ricorrente l’esame del teste Serafino Trento era necessario per dimostrare che non era vera la circostanza riferita dalla Vallefuoco secondo la quale il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Rossano Calabro, il lunedì successivo alla pubblicazione dell’articolo, le aveva manifestato la sua solidarietà. La Corte di appello aveva giudicato la prova superflua senza indicare le ragioni di tale giudizio. In tal modo era stato violato il diritto di difesa, dovendosi consentire all’imputato, a seguito della modifica dell’originaria imputazione, di assumere nuove prove.

 

2.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole dell’entità della pena, fissata in misura eccessiva rispetto alla gravità del fatto senza che fosse fornita alcuna motivazione in proposito.

 

                                          CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

 

Nella sentenza impugnata si afferma che l’articolo sopra descritto consentiva di intendere in modo univoco il suo riferimento all’odierna parte civile, in quanto unico magistrato coniugato di sesso femminile in servizio presso la Procura della Repubblica di Rossano; il periodico si occupava principalmente del territorio di Rossano Calabro. Nella sentenza di primo grado si dà pure atto, sulla base della deposizione del teste Francesco Panebianco, che il periodico era diffuso esclusivamente in ambito locale e che l’articolo in questione si inseriva in una sequenza di pubblicazioni, riferite dai numerosi testi escussi, in cui si faceva espresso riferimento all’attività giudiziaria del Tribunale di Rossano Calabro e della Procura della Repubblica presso il medesimo Tribunale, cosicché appariva evidente che l’articolo si riferiva in modo univoco alla Vallefuoco.

Le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 – dep. 2012, Valerio, Rv. 25261501). Il motivo del ricorso in cassazione poggia, pertanto, su un dato fattuale (che il periodico fosse diffuso anche nel territorio del Tribunale di Castrovillari e che l’articolo non consentisse di individuare il riferimento alla Vallefuoco) che è estraneo alla ricostruzione del fatto operata dalle due sentenze di merito. In tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 – dep. 2015, Musso, Rv. 26548201). Peraltro, il Tribunale e la Corte di appello, nella ricostruzione del fatto non si sono basati esclusivamente sulle deposizioni della teste Vallefuoco e del teste Fasano, ma anche sulle dichiarazioni degli altri testi escussi, che secondo quanto affermato nelle due sentenze, hanno fornito validi riscontri alla deposizione della persona offesa.

 

2. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la mancata riapertura dell’istruttoria per escutere i testi a prova contraria, è inammissibile.

 

E’ inammissibile, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui si lamenta la mancata ammissione dei testi, non meglio individuati, per verificare se tutti i lettori avessero inteso che il magistrato al quale si faceva riferimento nell’articolo fosse la Vallefuoco, trattandosi di motivo nuovo dedotto per la prima volta nel giudizio di legittimità e non dedotto con uno specifico motivo di appello.

Nel resto, il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza. La violazione del diritto di difesa, sub specie di mancata ammissione delle prove dedotte, esige che ne sia precisata la portata indicando specificamente le prove che l’imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento, considerato che il diritto dell’imputato di difendersi citando e facendo esaminare i propri testi, trova un limite nel potere del giudice di escludere le prove superflue ed irrilevanti, ex art. 495 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 10425 del 28/10/2015 – dep. 2016, Lanzafame, Rv. 26755901).

Nel caso di specie, dalla sentenza di secondo grado emerge che la Corte di appello non ha accolto la richiesta di escussione del teste Serafino Trento ritenendo la prova superflua. Peraltro, dalle due sentenze di merito risulta che la circostanza che il ricorrente intendeva confutare attraverso l’esame del teste non è stata affatto presa in considerazione dai giudici di merito per fondare su di essa la affermazione della penale responsabilità dell’imputato, che ha le sue basi nel contenuto stesso dell’articolo, nella sua diffusione in ambito locale e nell’assunzione da parte dell’imputato della paternità dell’articolo medesimo. Ne consegue che risulta evidente che del tutto correttamente la Corte di appello ha ritenuto non necessaria la deposizione del teste indicato dal ricorrente, in quanto avente ad oggetto una circostanza irrilevante ai fini del giudizio.

 

3. Il terzo motivo di ricorso è fondato.

La Corte EDU, con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la la sent. Belpietro c. Italia, 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa, come nel caso di specie.

In applicazione dei suddetti principi, non ricorrendo alcuna delle circostanze eccezionali indicate dalla Corte EDU, la pena inflitta all’odierno ricorrente risulta eccessiva ed il suo ricorso è fondato in parte qua.

 

4. Non risultando il ricorso inammissibile deve rilevarsi che il reato contestato al Buonofiglio si è ormai estinto per prescrizione.

Il reato è stato commesso il 13 agosto 2011 e considerando anche giorni 28 di sospensione conseguenti a due rinvii per impedimento disposti alle udienze del 14 maggio 2014 e del 9 aprile 2015, il termine massimo di prescrizione pari ad anni sette e mesi sei ai sensi degli artt. 157 e 161, secondo comma, cod. pen. è maturato in data 13 marzo 2019. Non risultando la evidenza di alcuna delle cause di proscioglimento previste dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., deve dichiararsi la estinzione del reato per prescrizione e la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali.

 

5. All’inammissibilità dei primi due motivi di ricorso consegue, invece, il rigetto del ricorso agli effetti civili, con conseguente conferma delle statuizioni civili della sentenza impugnata.

                                                                                                                                        P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essersi il reato estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.

 

                                                                                                                                          zzzzzzzzzzz

 

ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 aprile 2019 

Ordinanza del 9 aprile 2019 del Tribunale di Salerno nel procedimento penale a carico di N. P. e S. A.. Reati e pene – Stampa – Diffamazione a mezzo stampa – Trattamento sanzionatorio – Pena detentiva. – Codice penale, art. 595, comma terzo; legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), art. 13. (19C00245) (Gazzetta Ufficiale Serie Speciale – Corte Costituzionale n.38 del 18-9-2019) 

https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2019-09-18&atto.codiceRedazionale=19C00245 
 

TRIBUNALE DI SALERNO 

                   Ufficio del Giudice monocratico 

                       Seconda sezione penale 

 

    Il giudice, dott. Giovanni Rossi,  nell’ambito  del  procedimento penale indicato in epigrafe, a carico di N.P., nato a … il  …,  e S.A., nato a … il …, imputati, rispettivamente, dei reati di  cui agli  articoli 595 del codice penale e 13, legge n.  47/1948  (il  N., quale autore dell’articolo  giornalistico),  nonche’  57  del  codice penale (il S., quale direttore responsabile del quotidiano «…»); 

    Vista   l’istanza   di   legittimita’   costituzionale   avanzata all’udienza del 12 marzo 2019 dalla difesa degli imputati; 

    Letta la memoria difensiva, ex art. 121 del codice  di  procedura penale, depositata in cancelleria dalle costituite parti civili; 

 

                               Osserva 

 

1. La questione di legittimita’ costituzionale sollevata nel caso  di specie. 

    Il difensore di fiducia degli imputati ha sollevato la  questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 13 della  legge  8  febbraio 1948, n. 47 (contestata al N. al capo A), in quanto, alla luce  della costante e consolidata giurisprudenza in materia della Corte  europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi, anche Corte di  Strasburgo),  la citata norma incriminatrice, in relazione alla pena detentiva da essa stabilita (da uno a sei anni di reclusione, congiuntamente alla  pena pecuniaria della multa), sarebbe in palese contrasto con il parametro interposto dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle  liberta’  fondamentali,  rilevante  ai sensi  dell’art.  117,  comma  l  della  Costituzione,  nonche’   con l’analogo art. 21 della Costituzione italiana. 

    Precisamente,  secondo  l’assunto  difensivo,   anche   la   sola previsione astratta della possibile irrogazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa come  prevista  dall’art.  13, legge n.  47/1948  –  comporterebbe  una  limitazione  eccessiva  del diritto  convenzionalmente  e   costituzionalmente   tutelato   della liberta’ di manifestazione del pensiero e di cronaca del giornalista, incompatibile  con  l’art.  10  della  Convenzione  europea  per   la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e  delle  liberta’  fondamentali, come costantemente  interpretato  dalla  giurisprudenza  della  Corte europea dei diritti dell’uomo. 

    A tale ultimo riguardo, in  particolare,  a  sostegno  delle  sue argomentazioni,  la  difesa  richiama  la  recente   sentenza   della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali del 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia,  nonche’, tra  le  altre,  la  sentenza  della  Convenzione  europea   per   la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali  del 24 settembre 2013, Belpietro c.  Italia.  In  entrambe  le  pronunce, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo, condannando l’Italia per  violazione  dell’art.  10  della  Convenzione  europea  per   la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’  fondamentali  ha ribadito che la sanzione  della  reclusione  –  pur  condizionalmente sospesa – e’ compatibile con la liberta’  convenzionalmente  tutelata dal citato art. 10 soltanto «in casi eccezionali», cioe’ quando altri prevalenti diritti fondamentali possono essere lesi, come ad  esempio nei discorsi d’odio e di incitazione alla violenza. 

 

2. La rilevanza della q.l.c. 

 

    Preliminarmente, ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n.  87,  deve  essere  valutata  la  rilevanza  e  la  non  manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale sollevata dalla difesa degli imputati. 

    Ebbene, nella fattispecie de  qua,  e’  di  palmare  evidenza  la concreta rilevanza della questione sottoposta  al  vaglio  di  questo giudicante nell’ambito del procedimento penale in oggetto. 

    Allo stesso modo, inoltre, la questione non appare manifestamente infondata,  per  le  argomentazioni  che   si   espliciteranno   più approfonditamente  nel  prosieguo;  questione   che,   peraltro,   il Tribunale ritiene di estendere, di ufficio, anche all’art. 595, comma 3, del  codice  penale,  non  essendo  sostanzialmente  divergenti  i termini degli aspetti problematici in esame. 

    In  particolare,  circa   la   rilevanza   della   q.l.c.,   deve evidenziarsi che nel caso di specie viene contestato agli imputati  – ciascuno nella sua qualita’ – proprio  il  reato  di  diffamazione  a mezzo stampa di cui agli articoli 595 del codice penale  e  13  della legge  8  febbraio  1948,  n.  47,  la  cui  condotta  criminosa   e’ richiamata, per relationem, per contestare al direttore  responsabile della testata giornalistica il corrispondente reato omissivo ai sensi dell’art. 57 del codice penale. 

    Con   l’articolo   di   giornale   addebitato   in   imputazione, segnatamente, secondo l’ipotesi accusatoria, veniva  attribuita  alle persone  offese  diffamate  una  condotta  determinata  (di  qui   la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 13 della  citata  legge n.  47/1948),  poi  risultata  non  essere  vera  a   seguito   degli accertamenti investigativi. 

    A tale proposito, per comprendere  appieno  la  palese  rilevanza della q.l.c. proposta, e’ appena il caso di riportare testualmente in questa sede l’editto accusatorio, da cui si evince chiaramente che la fattispecie concreta sottoposta  all’esame  di  questa  A.G.  e’  una condotta  di  diffamazione  a  mezzo  stampa,  con  la  quale  veniva attribuito un fatto  determinato,  come  tale  rientrante  sia  nella disciplina generale della diffamazione dell’art.  595,  comma  3  del codice penale, sia nella disciplina speciale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. 

    Queste le imputazioni in contestazione: 

        «N. A) del reato p. e p. dagli articoli 595 del codice  penale  e 13, legge n. 47/1948,  perche’  sul  “…”,  inserto  del  quotidiano “…”,  offendeva  la  reputazione  di  C.B.  e  C.G.,  redigendo  un articolo, il cui occhiello riportava:  “Sequestrata  un’area  di  300 metri quadri, presi B. e G.C., dell’omonima  cosca”;  il  cui  titolo indicava: «Chiuso parking abusivo  dei  clan»  ed  il  cui  contenuto riportava: «Gli autori dello scempio  che  si  consumava  nel  centro della citta’ di … sono due affiliati al clan … di … I  militari … hanno fatto scattare le manette ai  polsi  di  B.C.  e  di  G.C., entrambi ritenuti elementi di  spicco  del  clan  camorristico  “…” operante nel … ed in vari comuni dell’area … e  referenti  locali per … del  clan  camorristico.  …  Il  clan  …  lentamente  sta occupando i territori … La cosca e’ dura a morire … Negli  ultimi tempi, grazie all’alleanza con il clan …, i …  si  sono  spostati nel … con attivita’ di riciclaggio e spaccio di  droga,  laddove  i …, per come puo’ evincersi dagli atti di indagine  della  Direzione distrettuale antimafia di  Napoli,  non  risultavano  affatto  essere affiliati al citato clan. 

    In Fisciano il 27 maggio 2012, sede della tipografia. 

        S.         B) del reato p. e p. dall’art. 57 del codice  penale  perche’ quale  direttore  responsabile  del   quotidiano   “…”,   omettendo colposamente di’ esercitare il necessario controllo, non impediva che il N. consumasse il delitto di cui al capo A). 

    In Napoli, in  epoca  immediatamente  antecedente  al  27  maggio 2012». 

    Di conseguenza,  tenuto  conto  dell’ipotesi  accusatoria  appena richiamata,  trattandosi  evidentemente  di  un’ipotesi  concreta  di diffamazione a mezzo stampa, e’ doveroso che il  giudizio  di  merito non possa essere  definito  a  prescindere  dalla  risoluzione  della sollevata questione di  legittimita’  costituzionale  concernente  le disposizioni legislative – di cui agli articoli 595 del codice penale e 13, legge 8 febbraio 1948,  n.  47,  riguardanti  appositamente  la fattispecie criminosa della  diffamazione  a  mezzo  stampa,  essendo particolarmente rilevante la natura della sanzione  –  detentiva  e/o pecuniaria –  che  eventualmente  il  giudice  dovrebbe  irrogare  in concreto in caso di condanna. 

    Pertanto, secondo il Tribunale, senza alcun dubbio deve ritenersi sussistente la concreta rilevanza  della  questione  di  legittimita’ costituzionale delle disposizioni legislative di  cui  agli  articoli 595 del codice penale e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47. 

3. Non manifesta infondatezza della q.l.c. 

 

    Passando al secondo requisito determinante per la  proponibilita’ della  questione  di  legittimita’  costituzionale  in  esame,   deve evidenziarsi che quest’ultima, a giudizio  del  Tribunale,  non  puo’ ritenersi manifestamente infondata. 

    Nella fattispecie concreta, piu’ in particolare, e’ evidente  che la questione di legittimita’ costituzionale attenga  alla  necessita’ di un adeguamento del  diritto  interno,  segnatamente,  del  diritto penale in  materia  di  diffamazione  a  mezzo  stampa,  al  generale principio di  cui  all’art.  10  della  Convenzione  europea  per  la salvaguardia dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’,  cosi’  come costantemente interpretato  dalla  Corte  di  Strasburgo,  anche  nei recenti giudizi contro l’Italia (cfr. Sallusti c. Italia e  Belpietro c. Italia cit.). 

    Nello   specifico,    considerato    che    l’istante    sostiene l’illegittimita’ dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n.  47  in quanto  –  nella  parte  in  cui  prevede  la  pena  detentiva  –  la disposizione citata violerebbe, oltre all’art. 21 della Costituzione, il generale principio della liberta’ di espressione di  cui  all’art. 10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti dell’uomo e delle liberta’, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, e’ compito iniziale di questo  giudicante individuare  una  interpretazione  convenzionalmente  conforme  della disposizione  scrutinata,  per  poi  valutare,  solo  in  un  secondo momento, contemperati  tutti  gli  altri  diritti  costituzionali  in bilanciamento,  se  effettivamente  la   violazione   del   principio convenzionale in oggetto determini realmente anche la  illegittimita’ costituzionale della disposizione legislativa nazionale. 

    Difatti, come ribadito a piu’ riprese dalla giurisprudenza  della Corte  costituzionale  sul  punto,  «L’interpretazione  del   giudice comune,  ordinario  o  speciale,  orientata  alla  conformita’   alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali – le cui prescrizioni e  principi  appartengono indubbiamente ai vincoli derivanti  da  obblighi  internazionali  con impronta  costituzionale  (quelli  con  «vocazione   costituzionale»: sentenza n.  194  del  2018)  –  non  implica  anche  necessariamente l’illegittimita’   costituzionale    della    disposizione    oggetto dell’interpretazione  per  violazione  di  un  principio  o  di   una previsione della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti dell’uomo e delle  liberta’,  quale  parametro  interposto  ai  sensi dell’art. 117, primo comma della Costituzione. E’ ricorrente che  gli stessi  principi  o   analoghe   previsioni   si   rinvengano   nella Costituzione e nella Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’,  cosi’   determinandosi   una concorrenza di tutele, che pero’  possono  non  essere  perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi puo’ essere uno  scarto  di  tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della  Corte  europea dei diritti dell’uomo  riconosca,  in  determinate  fattispecie,  una tutela piu’ ampia. Questa Corte ha gia’ affermato che,  quando  viene in rilievo un  diritto  fondamentale,  «il  rispetto  degli  obblighi internazionali […] puo’ e deve […] costituire strumento  efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317  del  2009).  E’ quanto si e’ verificato da ultimo (sentenza  n.  120  del  2018)  con riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia  dalla Costituzione  (art.  39)  che  dalla  Convenzione  europea   per   la salvaguardia dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’  fondamentali (art.  11).  Non  c’e’  pero’,  nel  progressivo   adeguamento   alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, alcun automatismo, come risulta gia’  dalla  giurisprudenza di questa Corte, stante, nell’ordinamento nazionale,  il  «predominio assiologico della  Costituzione  sulla  Convenzione  europea  per  la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’» (sentenza n.  49 del 2015). Da una  parte,  la  denunciata  violazione  del  parametro convenzionale interposto, ove  gia’  emergente  dalla  giurisprudenza della Corte  EDU,  puo’  comportare  l’illegittimita’  costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce  di  quella  Corte  sia identificabile un «approdo giurisprudenziale  stabile»  (sentenza  n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015  e, nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va  verificato  che  il bilanciamento,  in  una  prospettiva  generale,  con  altri  principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di  sistema diversa – o comunque non necessariamente  convergente  –  rispetto  a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso  di  specie,  della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla  Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e  delle  liberta’.

Va infatti ribadito che, «[a]  differenza  della  Corte  EDU,  questa Corte […] opera una  valutazione  sistemica,  e  non  isolata,  dei valori coinvolti dalla norma di volta in  volta  scrutinata,  ed  e’, quindi,  tenuta  a  quel  bilanciamento,  solo  ad  essa   spettante» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in  cui  si  sostanzia  tra l’altro il «margine di apprezzamento» che compete allo  Stato  membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009)»  (cfr., testualmente,  in  motivazione,  la  recente  sentenza  della   Corte costituzionale  n.  25/19  del  24  gennaio  2019,   pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 6 marzo 2019). 

    In estrema sintesi, la richiamata giurisprudenza della  Consulta, in  materia  di  violazione  dei  principi   e   prescrizioni   della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’,  ha  cristallizzato  le  seguenti   regole   generali: 

 a) un’interpretazione  convenzionalmente  orientata  della   norma   non comporta automaticamente una sua  illegittimita’  costituzionale,  in quanto puo’ esservi  nell’ordinamento  interno  un  principio  o  una disposizione che tuteli un principio analogo a quello  oggetto  della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’  fondamentali  e  che  si  ritiene  violato;  b)  quando  la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in  materia di diritti fondamentali, riconosca una tutela piu’ ampia al principio violato in questione, il rispetto degli obblighi internazionali –  di cui all’art. 117, comma 1 della Costituzione – diventa uno  strumento efficace per ampliare la tutela della disciplina  nazionale  e  cosi’ adeguarla  alla  normativa   della   Convenzione   europea   per   la salvaguardia  dei  diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’;  c)   tale ampliamento e adeguamento di tutela non e’  pero’  automatico  –  con conseguente dichiarazione di incostituzionalita’ della norma interna, ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, in  relazione  al parametro convenzionale interposto violato – ma  subordinato,  da  un lato, al riconoscimento dell’esistenza di un orientamento  stabile  e consolidato della giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti dell’uomo sul punto, dall’altro, all’assenza di un diverso  principio o  valore  costituzionalmente  tutelato  che,  in  un   bilanciamento sistematico di  interessi,  sia  prevalente  e  non  convergente  con l’interpretazione convenzionalmente orientata. 

    Orbene, nel caso  di  specie,  a  parere  di  questo  giudicante, ricorrono  tutti  i  requisiti  richiesti   dalle   regole   generali determinate dalla Corte costituzionale e sopra indicati, sub a), b) e c), per poter validamente  sollevare  la  questione  di  legittimita’ costituzionale delle disposizioni legislative in parola. 

    Piu’ in particolare, come si  vedra’  subito  dopo,  il  generale principio e diritto della liberta’ di espressione  sancito  dall’art. 10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti dell’uomo  e  delle  liberta’,  oggetto   della   giurisprudenza   di Strasburgo, trova nell’ordinamento nazionale un principio  e  diritto speculare nella liberta’ di manifestazione di pensiero – e di  stampa – costituzionalmente garantita dall’art. 21 della Costituzione. 

    Pertanto, considerato che nel nostro ordinamento  interno  l’art. 21 della Costituzione garantisce una tutela – primaria e fondamentale – analoga  alla  liberta’  di  espressione  del  pensiero  assicurata dall’art. 10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei diritti dell’uomo e delle liberta’, e’ chiaro che  la  giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo formatasi  su  tale  ultima disposizione possa e  debba  essere  utilizzata  quale  strumento  di ampliamento e adeguamento del diritto interno, in quanto con essa  si riconosce  una  forma  di  tutela  assai  ampia,  e  certamente  piu’ favorevole,   del   diritto   di    manifestazione    di    pensiero, specificamente,  nella  parte  in  cui  esclude  la  possibilita’  di prevedere – anche solo in  astratto  –  l’applicazione  di  una  pena detentiva  per  la  diffamazione  a  mezzo  stampa   realizzata   dai giornalisti, fatti salvi «i casi eccezionali». 

    In tal modo, quindi, risultano  pienamente  integrati  i  profili richiesti sub a) e b). 

    Per  quanto  riguarda,  invece,  la  sussistenza  dei   requisiti richiesti sub c), ovvero l’esistenza di una  costante  e  consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in  materia, da  un  lato,  e  l’assenza  di  contrastanti   interessi   nazionali prevalenti, dall’altro, deve essere osservato quanto segue. 

    In  primo  luogo,   deve   evidenziarsi   che   la   recentissima giurisprudenza della Corte di Strasburgo,  formatasi  proprio  in  un caso italiano e richiamata anche dai difensore istante (caso Sallusti c. Italia), si colloca nell’ambito  di  una  costante  giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di  diffamazione a mezzo stampa, secondo la quale, in particolare,  l’ingerenza  nella liberta’ di espressione  dei  giornalisti  e’  in  palese  violazione dell’art. 10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’  fondamentali  quando  preveda l’applicazione di una pena  detentiva  al  di  fuori  delle  «ipotesi eccezionali»,  ove  tale  sanzione  non  e’  necessaria  e   non   e’ proporzionata rispetto al diritto perseguito e tutelato. 

    In secondo luogo, poi, non si ravvisano  nel  nostro  ordinamento interno  dei  principi,  valori  e/o  diritti   costituzionali   che, all’esito di un giudizio di bilanciarnento di interessi in conflitto, possano ritenersi concretamente prevalenti rispetto  al  fondamentale diritto di manifestazione del  pensiero  di  cui  all’art.  21  della Costituzione, analogo alla generale liberta’ di  espressione  di  cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, il quale, conseguentemente,  non  puo’  e non deve essere minimamente compresso con la minaccia  –  anche  solo astratta – di una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa, fatti salvi ovviamente «i casi eccezionali» ritenuti tali dal legislatore. 

    3.1. Circa il  primo  profilo  (dell’esistenza  di  una  costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo  in  materia di diffamazione a mezzo stampa), piu’ nello specifico,  e’  opportuno qui riportare, da una parte, il testo dell’art. 10 della  Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e  delle  liberta’, quale parametro interposto ai sensi  dell’art.  117,  comma  1  della Costituzione, dall’altra, quanto recentemente ribadito  espressamente dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nel  ricordato  caso Sallusti  c.  Italia  e  dalla  costante   giurisprudenza   Edu   ivi richiamata. 

    L’art. 10 della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali prevede che: «1  Ogni persona ha diritto alla liberta’ d’espressione. Tale diritto  include la liberta’ d’opinione e la liberta’  di  ricevere  o  di  comunicare informazioni o idee senza che vi  possa  essere  ingerenza  da  parte delle autorita’ pubbliche e senza limiti di frontiera. 2  L’esercizio di queste liberta’, poiche’ comporta doveri e  responsabilita’,  puo’ essere sottoposto alle formalita’, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure  necessarie, in una societa’ democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrita’ territoriale o alla pubblica sicurezza,  alla  difesa  dell’ordine  e alla prevenzione dei reati, alla  protezione  della  salute  o  della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti  altrui,  per impedire la divulgazione di informazioni riservate  o  per  garantire l’autorita’ e l’imparzialita’ del potere giudiziario». 

    Ebbene,  in  merito  all’interpretazione  di  tale  disposizione, occorre rilevare che, con la citata pronuncia del 7  marzo  2019  nel caso Sallusti  c.  Italia,  dopo  aver  precisato  che  la  questione controversa sulla natura  della  sanzione  attiene  alla  valutazione circa la reale «necessita’ e proporzione» di una  pena  detentiva  in caso diffamazione a mezzo  stampa,  quale  evidente  ingerenza  nella liberta’ di espressione, la Corte europea dei  diritti  dell’uomo  ha testualmente  ricordato  quanto  segue:  «51.  I  principi   generali relativi  alla  necessita’  di   un’ingerenza   nella   liberta’   di espressione sono riassunti nelle cause Morice  c.  Francia  [GC],  n. 29369/10, §§ 124-139, Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei diritti dell’uomo e delle  liberta’  fondamentali  2015  e  Belpietro (sopra citata, §§ 47-54, ndr, Belpietro c. Italia,  n.  43612/10,  24 settembre 2013). 52. In  particolare,  la  Corte  sottolinea  che  il criterio della «necessita’ in una  societa’  democratica»  esige  che essa  determini  se  l’ingerenza  lamentata  corrispondesse   a  una «pressante esigenza sociale», se i  motivi  addotti  dalle  autorita’ nazionali  per  giustificare  l’ingerenza   fossero   «pertinenti   e sufficienti» e se la sanzione inflitta fosse «proporzionata  al  fine legittimo perseguito» (si veda Belpietro, sopra  citata,  §§  49-50).

[…] 59. Benche’ l’irrogazione delle pene sia in linea di  principio una materia di competenza dei tribunali nazionali, la  Corte  ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorche’  sospesa,  per  un reato connesso ai mezzi di comunicazione,  possa  essere  compatibile con la liberta’ di espressione dei giornalisti garantita dall’art. 10 della Convenzione soltanto in circostanze  eccezionali,  segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di  discorsi  di  odio  o  di  istigazione  alla violenza (si veda, Cumpana e Mazare c. Romania (GC], n.  33348/96,  § 115, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e delle liberta’ fondamentali  2004-XI).  A  tale  riguardo,  la  Corte ril eva le recenti iniziative legislative  da  parte  delle  autorita’ italiane finalizzate, in linea con le recenti  pronunce  della  Corte contro l’Italia, a limitare il ricorso a sanzioni penali per il reato di diffamazione, e a introdurre un’importante misura positiva, ovvero l’abolizione della pena della reclusione per il reato di diffamazione(…)». 

    In altri termini, alla luce dei principi generali ricordati dalla pronuncia in parola, secondo la Corte europea dei diritti  dell’uomo, la compressione del diritto di espressione dei  giornalisti  mediante l’applicazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a  mezzo stampa,  benche’  in  astratto  non  incompatibile  con  il   diritto convenzionale, deve considerarsi generalmente contraria  all’art.  10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, poiche’ tale sanzione – di natura detentiva – risulta di per se’ eccessiva e sproporzionata, a meno che non ricorrano «casi eccezionali» di gravi  lesioni  di  ulteriori  diritti  fondamentali, quali,  a  titolo  solo  esemplificativo,  i  discorsi  d’odio  e  di istigazione alla violenza. 

    Difatti, nel caso di specie, escludendo  la  sussistenza  di  una tale ipotesi eccezionale, pur a fronte di un legittimo fine di tutela dell’altrui reputazione, la Corte europea dei  diritti  dell’uomo  ha ritenuto non giustificata la condanna a pena  detentiva  irrogata  al Sallusti,  affermando  conclusivamente  che,   in   sostanza:   «Tale sanzione, per  sua  stessa  natura,  ha  inevitabilmente  un  effetto dissuasivo (si veda, mutatis mutandis, Kapsis e Danikas c. Grecia, n. 52137/12, § 40, 19 gennaio 2017). Il fatto che la pena detentiva  del ricorrente sia stata sospesa non modifica tale conclusione, in quanto la singola  commutazione  di  una  pena  detentiva  in  una  sanzione pecuniaria  e’  una  misura  soggetta  al  potere  discrezionale  del Presidente della Repubblica italiana.». 

    A tale riguardo, piu’ in particolare, per comprendere  pienamente il ragionamento giuridico costantemente svolto  dalla  Corte  europea dei  diritti  dell’uomo  in  merito  alla  reale  natura  della  pena detentiva comminata in astratto  in  caso  di  diffamazione  a  mezzo stampa e, quindi, all’apprezzamento dell’effettiva proporzionalita’ e necessita’ dell’ingerenza sulla liberta’ di espressione  mediante  la minaccia di tale pena, e’ illuminante riportare  in  questa  sede  le specifiche argomentazioni sostenute dalla Corte europea  dei  diritti dell’uomo nella causa Cumpana e Mazare c. Romania,  n.  33348/96,  §§ 113-115, come riportate testualmente – e  condivise  –  dalla  citata sentenza Belpietro c. Italia, n. 43612/10 del 24  settembre  2013,  i cui principi generali, come appena evidenziato, sono stati da  ultimo interamente confermati e ribaditi proprio nella sentenza Sallusti  c. Italia del 7 marzo 2019. 

    Con le predette argomentazioni, infatti,  la  Corte  europea  dei diritti dell’uomo afferma  espressamente  che:  «113.  Se  gli  Stati contraenti hanno la facolta’, se non il dovere, in  virtu’  dei  loro obblighi  positivi  derivanti  dall’art.  8  della  Convenzione,   di disciplinare l’esercizio della liberta’ di  espressione  in  modo  da garantire che la legge  tuteli  adeguatamente  la  reputazione  degli individui, essi devono evitare, facendolo, di adottare misure  idonee a dissuadere i media dallo svolgere il loro compito  di  avvisare  il pubblico in caso di apparenti o presunti abusi dei pubblici poteri. I giornalisti di inchiesta potrebbero mostrarsi reticenti a  esprimersi su questioni di interesse generale (…) se  corrono  il  rischio  di essere condannati, quando la legislazione prevede sanzioni di  questo tipo per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione altrui,  a pene  detentive  o  che  comportano  il  divieto  di  esercitare  una professione. 114. L’effetto dissuasivo che il timore di  sanzioni  di questo tipo comporta per l’esercizio da parte dei  giornalisti  della loro liberta’  di  espressione  e’  evidente  (…).  Nocivo  per  la societa’ nel suo complesso, fa  anch’esso  parte  degli  elementi  da prendere   in   considerazione   in   sede   di   valutazione   della proporzionalita’ – e dunque della giustificazione  –  delle  sanzioni inflitte (…). 115. Se la fissazione delle  pene  e’,  in  linea  di principio, appannaggio dei giudici nazionali, la Corte considera  che una pena detentiva inflitta per un reato commesso  nell’ambito  della stampa sia compatibile con la liberta’ di  espressione  giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in  particolare quando altri diritti fondamentali siano  gravemente  lesi,  come  nel caso, ad esempio, della diffusione  di  un  discorso  di  odio  o  di incitazione alla violenza (…).». 

    In definitiva, come emerge palesemente dal testo delle richiamate motivazioni, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, salvo  i «casi eccezionali», la previsione di una pena detentiva per  i  reati di diffamazione a mezzo  stampa  deve  essere  generalmente  ritenuta sproporzionata e non giustificata, in quanto l’effetto  assolutamente dissuasivo derivante gia’ dalla semplice  minaccia  dell’applicazione di tale sanzione – detentiva – risulterebbe di per se’ eccessivamente limitativo  della  liberta’  di  espressione  giornalistica  di   cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’. 

    3.2. Circa il secondo profilo  (nella  specie,  l’assenza  di  un valore  costituzionale  prevalente  e  contrastante  con  il  diritto convenzionalmente tutelato), come gia’ anticipato, e’ appena il  caso di ricordare nuovamente che il nostro ordinamento interno prevede una disposizione analoga all’art. 10 della  Convenzione  europea  per  la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, in  particolare, l’art.  21  della  Costituzione,  che,  al  pari  della  disposizione convenzionale, garantisce un ruolo primario ed essenziale nella  vita democratica del paese alla liberta’ di manifestazione  del  pensiero, in tutte le sue forme, quindi anche in quella giornalistica, tanto e’ vero che, al secondo comma,  la  disposizione  costituzionale  citata tutela espressamente anche la liberta’ di stampa. 

    Di converso, non sono ricavabili nell’ordinamento interno  valori e/o principi costituzionali superiori che assumano, in via  generale, prevalenza assoluta rispetto al diritto  di  cui  all’art.  21  della Costituzione  e,  quindi,  anche  rispetto  al  fondamentale  diritto convenzionale di cui all’art. 10 della  Convenzione  europea  per  la salvaguardia dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’,  cosi’  come interpretato dalla Corte di Strasburgo. 

    Peraltro, il dato che non vi sia  nell’ordinamento  nazionale  un interesse prevalente che  impedisca  di  adottare  un’interpretazione convenzionalmente  orientata  delle   disposizioni   legislative   in questione, e’ dimostrato dalla circostanza storica che il legislatore italiano, ormai da tempo, ha al suo esame diversi  disegni  di  legge proprio per la modifica della disciplina sanzionatoria in materia  di reati a mezzo stampa, anche in ossequio  delle  recenti  sentenze  di condanna pronunciate contro l’Italia dalla Corte europea dei  diritti dell’uomo in materia. 

    Ancora una volta, e’ estremamente  emblematico  quanto  ricordato testualmente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul punto  nel caso Sallusti c. Italia, ove si da’ atto,  tra  l’altro,  del  parere espresso dalla Commissione europea per la  democrazia  attraverso  il diritto  (c.d.  «Commissione  di  Venezia»)  sulla  questione   della compatibilita’ della legislazione italiana in materia di diffamazione con l’art. 10 della Convenzione: «32. In  data  9  novembre  2013  la Commissione di Venezia, mediante Parere n.  715/2013  («Parere  sulla legislazione italiana in materia di diffamazione») osservo’  che  era in corso una riforma della legislazione in  materia  di  diffamazione ([…]):  le  modifiche  proposte   prevedevano,   inter   alia,   la limitazione del ricorso a  disposizioni  penali,  l’abolizione  della reclusione quale possibile pena e un importo massimo per le  sanzioni pecuniarie, che mancava nell’art. 595 commi 3 e 4 del  codice  penale (abrogato dal disegno  di  legge).  La  Commissione  di  Venezia  era dell’opinione  che  le  sanzioni  pecuniarie   di   importo   elevato costituissero «una minaccia avente un effetto dissuasivo  quasi  pari alla reclusione» ma ricordo’ anche che cio’ doveva essere considerato «un notevole miglioramento, in conformita’ agli inviti del  Consiglio d’Europa a sanzioni piu’ miti per il reato di diffamazione».  33.  La Commissione di Venezia, tuttavia, benche’ soddisfatta delle modifiche proposte, osservo’ che il disegno di legge, presentato nel 2013,  era ancora pendente dinanzi alla  Commissione  permanente  Giustizia  del Senato». 

    Orbene, cio’ ricordato, nonostante questi opportuni miglioramenti profilati dallo stesso legislatore italiano, non puo’  che  prendersi atto che, allo stato, nessuna modifica legislativa e’ intervenuta  in materia di reato di diffamazione a  mezzo  stampa,  che  continua  ad essere punito, pertanto, con la pena detentiva  –  sola  o  congiunta alla pena pecuniaria – proprio dagli articoli 595 del codice penale e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47 qui oggetto della q.l.c. in esame. 

    3.3. Volendo individuare  una  interpretazione  convenzionalmente orientata, dunque, alla luce della giurisprudenza della Corte europa dei diritti dell’uomo sopra analizzata, non  essendovi  principi  e/o diritti  costituzionali  contrastanti  e  prevalenti,   si   dovrebbe sostenere che la disposizione dell’art. 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47,  punisca  con  la  pena  detentiva  –  congiuntamente  alla  pena pecuniaria – esclusivamente le condotte diffamatorie a  mezzo  stampa che rivestano i caratteri dell’eccezionalita’,  ovvero  i  cosiddetti «casi eccezionali» cui fa riferimento la  stessa  Corte  europea  dei diritti dell’uomo. 

    Tuttavia, in ossequio al generale  principio  di  tassativita’  e determinatezza, quale corollario del supremo principio  di  legalita’ in materia penale sancito dall’art. 25  della  Costituzione,  non  e’ compito di questo giudice integrare la norma incriminatrice di questo ulteriore requisito  normativa  dell’eccezionalita’,  i  cui  precisi contorni  e  confini,  peraltro,   dovrebbero   pur   sempre   essere determinati puntualmente dal legislatore, cui spetta in via esclusiva il potere di legiferare in materia  penale,  essendo  i  giudici,  ai sensi dell’art. 101, comma 1 della  Costituzione,  soggetti  soltanto alla legge. 

    A tale ultimo proposito, occorre precisare che  questo  Tribunale e’ consapevole che la giurisprudenza di legittimita’ in materia –  il cosiddetto diritto vivente – nelle occasioni in cui si e’ pronunciata in  materia  di  diffamazione  a  mezzo  stampa  ha   sostenuto   una compatibilita’ convenzionale e costituzionale  della  pena  detentiva irrogata. 

    Sotto questo profilo, in particolare, e’  necessario  evidenziare che, in quelle occasioni, la Cessazione ha asserito la compatibilita’ di una condanna a pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa ritenendo che, nei singoli casi di  specie,  ricorressero  gli estremi delle «ipotesi eccezionali» di cui alla giurisprudenza  della Corte di Strasburgo. 

    Tuttavia, a seguito dei ricorsi dei condannati alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e’  stata  poi  la  stessa  giurisprudenza  di Strasburgo a negare categoricamente  che  ricorressero  nei  casi  di specie  le  «ipotesi  eccezionali»  invece  originariamente  ritenute sussistenti dalla Corte di  Cassazione  (cfr.  Belpietro  c.  Italia, Sallusti’ c. Italia). 

    Sul  punto,  e’  significativo  ricordare  quanto   icasticamente asserito da ultimo dalla  Corte  europea  dei  diritti  dell’uomo  in merito alla decisione adottata dalla Corte  di  Cassazione  nel  caso Sallusti c. Italia (di conferma della sentenza  di  condanna  a  pena detentiva) circa la sussistenza di una «ipotesi eccezionale», poi, in realta’, negata in concreto dai giudici di Strasburgo: «Con  sentenza del 26 settembre 2012, depositata  nella  pertinente  cancelleria  in data 23 ottobre 2012, la Corte di Cassazione confermo’ le conclusioni della Corte di appello,  valutando,  inter  alia,  la  compatibilita’ della condanna e della pena inflitta alla luce  della  giurisprudenza della Corte.  In  particolare,  la  Corte  di  Cassazione  tento’  di giustificare l’irrogazione di una pena detentiva, sostenendo  che  il caso   presentava   circostanze    eccezionali.    In    particolare, l’irrogazione della pena detentiva  era  stata  giustificata  da  una serie di fattori concorrenti, quali la sussistenza della  circostanza aggravante  della  «attribuzione  di  un   fatto   determinato»;   la personalita’ del ricorrente, i suoi precedenti penali (in  quanto  il ricorrente  era  recidivo)  e  il  fatto  che  la  pubblicazione   di informazioni  false  aveva  leso  la   reputazione   del   G.C.,   un magistrato». 

    Come anticipato, pero’, non  condividendo  le  motivazioni  della Cassazione, la  Corte  europea  dei  diritti  dell’uomo  non  ha  poi ritenuto sussistente nel caso di specie alcuna «ipotesi eccezionale», come peraltro aveva gia’ fatto anche nel precedente  caso  «Belpietro c. Italia». 

    Detto tutto questo, e’ evidente che la richiamata  giurisprudenza di  legittimita’  non  possa  essere  presa  in  considerazione  come parametro di interpretazione convenzionalmente  e  costituzionalmente orientata, in quanto, come appena sottolineato, la stessa si  e’  poi rivelata, a posteriori, contraria all’orientamento consolidato  della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in  materia, che nelle due occasioni di condanna a pena detentiva per diffamazione a mezzo stampa non ha  in  effetti  riconosciuto  la  sussistenza  di alcuna «ipotesi eccezionale». 

 

4. La q.l.c. dell’art. 595 del codice penale. 

 

    Tutte le argomentazioni  sopra  esposte,  come  gia’  anticipato, possono essere  estese,  mutatis  mutandis,  anche  alla  fattispecie delittuosa di cui all’art. 595, comma 3, del codice  penale,  con  la quale in caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa (o con qualsiasi altro mezzo di pubblicita’  ovvero  in  atto  pubblico)  il legislatore punisce l’autore del reato con la  pena  detentiva  della reclusione alternativamente alla  pena  pecuniaria  della  multa  non inferiore ad euro 516. 

    La  fattispecie   in   questione,   infatti,   differisce   dalla diffamazione a mezzo stampa aggravata di cui  all’art.  13,  legge  8 febbraio 1948, n. 47 soltanto perche’, a differenza di  quest’ultima, in essa non  viene  attribuito  un  fatto  determinato  alla  persona offesa. 

    A  tale  proposito,  invero,  per  quel  che  qui  rileva,   deve evidenziarsi che il dato normativo che la pena detentiva sia prevista astrattamente solo come alternativa – e non  congiunta  –  alla  pena pecuniaria non consente di poter  effettuare  valutazioni  differenti rispetto a quanto tutto sopra considerato in merito alla tutela della liberta’ di espressione, di cui all’art. 21 della Costituzione  e  10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle   liberta’,   quest’ultimo   cosi   come   interpretato   dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. 

    Difatti, come sopra ampiamente evidenziato, a  prescindere  dalla scelta  di  voler  irrogare  concretamente  la  sanzione   pecuniaria piuttosto che la pena detentiva, rimessa  alla  discrezionalita’  del singolo giudice, tenuto conto di tutte le  contingenze  del  caso  di specie e bilanciate tutte le circostanze (aggravanti  ed  attenuanti) eventualmente ritenute sussistenti,  e’  gia’  la  stessa  previsione astratta di una pena detentiva – quindi la  comminazione  legislativa della stessa – ad essere eccessivamente limitativa  del  fondamentale diritto  di  manifestazione  del  pensiero,  come  tale  in  evidente violazione  degli  articoli  10  della  Convenzione  europea  per  la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali e 21 della Costituzione. 

 

5. Parametri interni. 

 

    Oltre al parametro convenzionale interposto  dell’art.  10  della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’,  rilevante  ai  sensi  dell’art.   117,   comma   1   della Costituzione, e’ evidente che le disposizioni normative qui in  esame siano contrarie anche ai principi costituzionali di cui agli articoli 3, 21 e 25 della Costituzione. 

    Difatti, per tutte le argomentazioni sopra esposte, la previsione – anche solo astratta –  di  una  pena  detentiva  per  il  reato  di diffamazione a mezzo stampa sarebbe  manifestamente  irragionevole e totalmente sproporzionata rispetto alla liberta’ di manifestazione di pensiero, anche nella forma del  diritto  di  cronaca  giornalistica, fondamentale diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 della Costituzione,  la  cui  tutela,  in  assenza  di  contrari  interessi giuridici interni prevalenti,  non  puo’  che  essere  favorevolmente estesa nelle forme stabilite dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, eliminando cosi’, salvi i «casi  eccezionali», anche la mera comminazione di qualunque pena detentiva. 

    Di conseguenza, a seguito di un  contemperato  bilanciamento  dei diversi  valori   costituzionali   contrapposti,   la   liberta’   di manifestazione di pensiero, da  un  lato,  e  la  liberta’  personale dell’individuo, dall’altro, la previsione  legislativa  di  una  pena detentiva per i reati a mezzo stampa risulterebbe finanche  contraria al supremo principio costituzionale di  necessaria  offensivita’, di cui  all’art.   25   della   Costituzione,   in   quanto   totalmente sproporzionata, irragionevole  e  non  necessaria  rispetto  al  bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ovvero il rispetto della reputazione personale. 

    In caso contrario, infine, nel mantenere la previsione della pena detentiva nelle  fattispecie  di  diffamazione  a  mezzo  stampa,  vi sarebbe anche un’evidente  violazione  del  principio  costituzionale della funzione rieducativa della pena, di cui all’art.  27,  comma  3 della Costituzione, attesa la inidoneita’ della  minacciata  sanzione detentiva   a   garantire   il   pieno   rispetto della funzione generaipreventiva e specialpreventiva della pena stessa. Difatti, anche alla luce della  analizzata  giurisprudenza  della Corte europea dei diritti dell’uomo, se la pena  detentiva  –  al  di fuori dei casi eccezionali – e’ sempre sproporzionata  rispetto  alla liberta’ di manifestazione del pensiero a mezzo stampa, da  un  lato, dal  punto  di  vista  della  prevenzione  generale,  certamente   la generalita’ dei consociati non  sarebbe  culturalmente  orientata  ad astenersi dal commettere una condotta diffamatoria a mezzo stampa per la quale lo Stato italiano prevede una pena detentiva  che  pero’  la Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene sproporzionata e, quindi, non irrogabile in concreto; dall’altro, invece, e soprattutto, dal punto di vista specialpreventivo,   sicuramente   ogni   singolo giornalista  e,  quindi,  il  direttore  responsabile  della  testata giornalistica  non  sarebbero   effettivamente   dissuasi   dal non pubblicare articoli di stampa diffamatori, considerato  che  la  pena detentiva prevista dalla legge italiana per tale  condotta  criminosa comunque non sarebbe a loro applicabile in concreto, perche’, secondo la giurisprudenza Edu, considerata sempre sproporzionata e come  tale «non   necessaria   in   una   societa’   democratica»,   in   quanto eccessivamente limitativa della fondamentale liberta’ di espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione europea per la  salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali  e  dall’art.  21 della Costituzione. 

    Per tutti i motivi sopra  esposti,  in  conclusione,  secondo  il Tribunale,  deve  essere  sollevata  la  questione  di   legittimita’ costituzionale degli articoli 595, comma 3, codice penale e 13  della legge 8 febbraio 1948, n. 47, come indicato in dispositivo. 

 

                                                                                                                    P.Q.M. 

 

Visti gli art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 159,  comma 1, del codice penale, solleva  la  questione  di  legittimità costituzionale   degli articoli 595, comma 3, codice penale e  13  della  legge  8  febbraio 1948, n. 47, perché in violazione degli articoli 3, 21, 25, 27 della Costituzione, nonche’ dell’art. 117, comma 1 della Costituzione in relazione all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà, per le ragioni di  cui  in motivazione; 

Dispone l’immediata  trasmissione  degli  atti  processuali  alla Corte costituzionale; 

Dispone la sospensione del procedimento penale e dichiara sospesi i termini di prescrizione come per legge; 

Ordina la notificazione  della  presente  ordinanza,  letta  alle parti in udienza,  al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati; 

Manda alla cancelleria per gli adempimenti. 

 

Salerno, 9 aprile 2019 

 

                          Il Giudice: Rossi 

                                                                                                             xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx

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