C’ERA UNA VOLTA LA CRONACA DAL FRONTE

Più ombre che luci sulle cronache di guerra in diretta dai fronti caldi dell’Iraq, nonostante il gran tam tam degli inviati da ogni angolo dal mondo. Per l’informazione di prima mano sull’andamento delle operazione belliche è ancora aria di ritirata fra l’incudine della censura militare e il martello della propaganda dei capi degli eserciti. Poiché stavolta il terrorista vive tra noi, sparge panico e veleno tra noi, si è lanciata la corsa al disarmo dell’arma più potente dei nostri giorni, la comunicazione, nella convinzione di ridimensionare il rischio-megafono al nemico e di scongiurare frustrazioni e sindrome depressive sul fronte interno.
Possibile che nell’era del villaggio globale, si continui a coltivare l’illusione che si vinca con il diktat del taci che il nemico ti ascolta, e che è meglio cloroformizzare l’opinione pubblica che lasciarla in balìa di una libera circolazione delle notizie e delle idee? In un’editoriale su “Il Corriere della Sera”, Sergio Romano denuncia come, appunto nell’era degli email e dei satellitari, “la guerra è avvolta da un’impenetrabile nuvola di reticenza, imprecisioni e informazioni manovrate”, con in più una variante paradossale. “Insieme al silenzio sul reale risultato delle operazioni militari – sostiene l’opinionista- registriamo un fenomeno apparentemente contrario: una straordinaria quantità di immagini che danno a chi le vede la sensazione di conoscere tutto in presa diretta, insieme a una quantità di notizie non verificabili”. I primi a soffrirne sono i giornalisti ribattezzati “embedded”, cioè incastonati, secondo la terminologia della Guerra del Golfo 2003. Chi non opera in semilibertà a Bagdad, dove si sposta con gli occhi della scorta, o chi non è costretto ad arrampicarsi sugli specchi del gran vociare delle conferenze-stampa dei generali pluristellari, è intruppato nelle retrovie dei combattenti anglo-americani. Potrebbe sembrare un operazione di trasparenza rispetto alla guerra del 1991, che fu un lungo videogame mostrato solo sugli schermi del Pentagono, ma, in effetti, si deve obbedire a precise regole per non fornire dettagli di natura sensibile. In condizioni di disagio fisico ed intellettuale, valorosi giornalisti spremono fino in fondo le risorse della propria esperienza e della propria professionalità per strappare mezze notizie e brandelli di verità, per raccogliere e interpretare il raccoglibile nei recessi della disfatta umana e dei disastri dei bombardamenti intelligenti, dietro le quinte della Casa Bianca o del Pentagono, nei teatri delle sceneggiate organizzate dal fondamentalismo islamico.
Trappole e rischi mortali, viceversa, per quei cronisti che si avventurano per proprio conto nell’intento di scoprire il vero volto della guerra. Nei primissimi giorni del conflitto, un cameraman australiano è stato ucciso nel Kurdistan e tre reporter della tv britannica sono caduti in un agguato lungo la strada di Bassora. Il sacrificio sull’altare all’informazione anticonformista li accomuna agli oltre mille giornalisti trucidati negli ultimi 12 anni e tra i quali le nostre colleghe Ilaria Alpi (Somalia) e Maria Grazia Cutuli (Afghanistan).
In tempi di pace, la prevaricazione informatica da parte dei monopoli e degli oligopoli del potere e la forza tecnologica della comunicazione autarchica e di regime soffocano, manipolano e virtualizzano la realtà dei fatti. E chi non si adegua rischia ogni sorta di intimidazione, dalle querele alla minacce di galera. In tempi di guerra, la uccidono, la sporcano e la incarogniscono al canto dell’amor patrio o di Dio. E chi rompe lo schema, rischia la pelle. Che fine ha fatto la lezione della sporca guerra del Vietnam che segnò la grande vittoria dell’informazione sull’oscurantismo dei falsi idoli di libertà?
E più la guerra avanza, più la censura aumenta. Ne è persuaso l’ex inviato del “new York Times” a Saigon, Sydney Schanberg, autore de “le urla del silenzio”, da cui venne tratto il film premiato con l’Oscar. Il suo giudizio è scoraggiante: vediamo e leggiamo solo quello che vuole il Pentagono o Saddam e ai giornalisti si lasciano i dettagli e si nasconde la realtà del conflitto.

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